Che grasse risate in sottofondo.
Luci soffuse.
Tamburi picchiano una marcia.
Attacca la musica.
Un coro invita a stringerci.
Primo atto.

«Mrambui tipei».
La folla ride.



«Sono un folle, perciò rido e voi ridete, perché io son bravo. Che lavoro fai? Faccio il mimo».
Sogghigna la prima fila, parlottando con il vicino.



«Mimo da anni la vita degli altri… la mia? Non la conosce nessuno. Né amici, né cari, mai nessuno si è rivolto a me interessato».
Il pubblico si guarda attorno, cercando approvazione in sguardi veloci.



«Né amici, né cari. Le persone non hanno voglia di scoprirti mio caro Pan, tu vai bene finché ridi e ti diverti.
Ah, Non sei solo questo? Beh ma a noi non importa, tieni la moneta, fammi ridere, raccontami una storia».
Si innalzano con una velocità quasi surreale dalle poltroncine camosciate in cui riponevano il deretano sfitto, tutti in piedi, pronti a scappare.


«A chi importa, suvvia. A voi piaccio quando sorrido in barba agli screzi. Quando è facile piacere, facile non parlare, quando è facile non chiedere di ciò che amo veramente. Mi sono stancato di dover mimare la mia esistenza, di dovervi piacere per forza, ridi di me, ma non di ciò che mostro, ma per ciò che sono.
Rispondetemi. Ditemi che non ho concluso niente e deridetemi.
Calciate nello stomaco e sbirciate con la coda dell’occhio per vedere se mi avete ferito».
La maggiorate dei paganti ora è in piedi, in preda allo sgomento. Gridano.
Vogliono rimborsato il biglietto.
Un fiasco.
Il coraggio che dice: «Ero venuto per divertirmi e chi incontro? Soprate, Afistotele, Epiculo».
Vogliono uscire dalla sala, correre e odiare chi sono oggi.


«Mrambui tipei».
Ride la folla e torna a sedersi.
Chiudo gli occhi.

Che grasse risate in sottofondo.
Luci soffuse.
Tamburi picchiano una marcia.

Attacca la musica.
Un coro invita a stringerci.


Che grasse risate nel sottosuolo.
Luci spente.
Tremori fermano la caccia.
Attacca la preda.
Un coro invita a dividerci.
Fine primo atto.







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Foto di: Archivio storico del Teatro La Scala di Milano.

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